LA LANTERNA DI DIOGENE.


ALFREDO PANZINI

LA LANTERNA
DI DIOGENE

MILANO
Fratelli Treves, Editori

11.º migliaio.


PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati pertutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.

Milano, Tip. Treves — 1920.


[1]

LA LANTERNA DI DIOGENE

I.La cura del moto e del sole.

L'undici di luglio, alle ore due del pomeriggio,io varcavo finalmente, dall'alto dellamia vecchia bicicletta, il vecchio dazio milanesedi Porta Romana.

La meta del mio viaggio era lontana: unaborgata di pescatori su l'Adriatico, dove ioero atteso in una casetta sul mare: questaborgata supponiamo che sia non lungi dall'anticopineto di Cervia e che, per l'aere puro,abbia il nome di Bellaria.

Ora, quel giorno della partenza, il cielo erasenza nubi, e per far piacere alla città chemi ospita da tanti anni, dirò che era ancheazzurro: certo ne pioveva un'afa così ardentee greve, che in ogni altra città d'Italia gliuomini si sarebbero addormentati; e anche lemotrici e le macchine si sarebbero fermate.

Vero è che a Milano non si sciopera per cosìpoco.

[2]

*

Per mio conto tuttavia avrei giurato chein quell'ora ventilavano i più puri zeffiri delmare, e che la cappa del cielo era propriocosì bella come assicura il Manzoni nei «PromessiSposi».

Questo singolare fenomeno illusorio avvenivain me perchè in quell'ora il fresco maestraledella contentezza spirava nel mio cuore.

Ero io contento veramente in quell'ardentepomeriggio dell'undici luglio? Certo ero leggiero,leggiero come uno il quale, dopo essererimasto tutta la giornata nelle strettoie d'unabito nero per assistere ad una interminabilecerimonia ufficiale, arriva a casa, si strappail colletto e manda in aria il palamidone.

Precisamente: io ero stanco e greve e, benripensando, più che del lavoro giornaliero, ioero stanco della cerimonia ufficiale della vita,tanto stanco che in questo senso di tedio miparve di essere meravigliosamente solo fra gliuomini, e ne ebbi paura come di un prodromodi malattia insanabile dell'anima.

Lo sforzo continuo di equilibrarmi con glialtri, di portare anch'io sopra il colletto unbel volto mansueto e cerimonioso, mi squilibravasempre di più. Buttavo all'aria la carta[3]stampata; la letteratura, mi chiamava in mentei fiori secchi nelle scatole dei droghieri; gliscritti di politica, di filosofia mi facevanovenire in mente le emulsioni e le più vantatespecialità farmaceutiche. Mi pareva diessere stato anch'io sino a quel tempo un droghieree un farmacista in una botteguccia scura.E intanto la stella di Venere illumina ivertici dei monti, e il mare palpita sotto l'Aurora!

V'erano poi certi libri che mi facevano uneffetto diverso da quello che fanno agli altristudiosi. Così, per esempio, dall'«Orlando Furioso»veniva fuori una gran cavalcata; dalla«Gerusalemme» un pianto di belle donne amorose;dall'«Odissea» un profumo di grande mareazzurro su cui si stende il canto di Circe, lamaga. Dalla «Divina Commedia» veniva f

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